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      La conseguenza di quest'ultima maniera di sviluppo è una cotal disposizione malinconica, il perpetuo portar con sé un unico, grande dolore, e il derivantene disdegno di tutti i minori dolori o godimenti; quindi una condizione già più degna, che non sia il continuo correre in caccia di sempre nuovi fantasmi, il che è molto più comune.
      § 58.
      Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ogni vero, aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza. Ora, è difficilissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: a ogni nostro proposito contrastano difficoltà e fatiche senza fine, e a ogni passo si accumulano gli ostacoli. Quando poi finalmente tutto è superato e raggiunto, nient'altro ci si può guadagnare, se non d'essere liberati da una sofferenza, o da un desiderio: quindi ci si trova come prima del loro inizio, e non meglio. Direttamente dato è a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368