Quest'irrompere nei confini dell'altrui affermazione di volontà fu chiaramente conosciuto dai più remoti tempi, e il suo concetto espresso con la parola ingiustizia. Imperocché le due parti interessate riconoscono istantaneamente la cosa; non già, invero, come l'abbiamo qui esposta in limpida astrazione, bensì come sentimento. Chi subisce l'ingiustizia sente l'irromper nella sfera dell'affermazione del suo proprio corpo, mediante negazione di essa da parte di un individuo estraneo, sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto distinto e diverso dal male fisico, provato in pari tempo per l'azione stessa, o dal rammarico del danno. D'altra parte, a quegli che commette l'ingiustizia si affaccia la cognizione ch'egli è, in sé, la volontà medesima, la quale anche in quell'altro corpo si manifesta, e nell'un fenomeno s'afferma con tale veemenza, da farsi negazione appunto della volontà stessa nell'altro fenomeno, oltrepassando i confini del proprio corpo e delle sue forze; quindi egli, considerato come volontà in sé, combatte per l'appunto con la sua veemenza contro se medesimo, se medesimo dilania; anche a lui s'affaccia questa cognizione istantaneamente, non già in astratto, ma come oscuro sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia, più precisamente nel caso sopraddetto, sentimento della commessa ingiustizia.
L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzato nella più generica astrazione, si esprime in concreto nel modo più compiuto, più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed evidente, l'orrenda immagine del massimo contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua oggettivazione, che è l'uomo.
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