L'assassino, che per virtù di legge è consacrato alla pena capitale, deve invero ed a buon diritto essere usato come semplice mezzo. Perché la sicurezza pubblica, scopo principale dello Stato, è da lui turbata anzi soppressa, se la legge rimane ineseguita: lui, la sua vita, la sua persona devono essere ora il mezzo per l'esecuzione della legge, e quindi per la restaurazione della pubblica sicurezza; e un mezzo egli diviene a pieno diritto, per l'adempimento del contratto sociale, che da lui medesimo, in quanto egli era cittadino dello Stato, aveva avuto sanzione, e per effetto del quale, col fine d'aver sicurtà di godere la propria vita, la propria libertà, i propri possessi, aveva questa vita, questa libertà, questi possessi dati in pegno. Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della pena qui esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, è in verità sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuovo; bensì un pensiero quasi messo al bando da nuovi errori, sì ch'era necessario chiarirlo limpidissimamente. La sua spiegazione è, nella sostanza, già contenuta in ciò che a tal proposito dice Puffendorf, De officio hominis et civis, 1. 2, cap. 13. Vi si accorda egualmente Hobbes, Leviathan, capp. 15 e 28. Ai nostri giorni l'ha sostenuta, come si sa, Feuerbach. La si trova d'altronde già nei detti dei filosofi antichi: Platone l'espone chiaramente nel Protagora (p. 114, ed. Bip.), e anche nel Gorgia (p. 168), e finalmente nell'undecimo libro delle Leggi. Seneca esprime appieno il pensiero di Platone e la teoria di tutte le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit, quia peccatum est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).
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