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      Esso è penuria, miseria, strazio, tormento e morte. L'eterna giustizia impera: s'essi non fossero, presi collettivamente, così dappoco, non sarebbe neppure il lor destino, collettivamente preso, così triste. In questo senso possiamo dire: il mondo stesso è il giudizio universale. Se si potesse mettere in un piatto di bilancia tutto il dolore del mondo, e tutta la colpa del mondo nell'altra, la bilancia starebbe sicuramente in bilico.
      Certo che alla conoscenza, quale essa, dalla volontà in proprio servizio generata, si forma nell'individuo in quanto tale, il mondo non appare come da ultimo si disvela all'osservatore, ossia come oggettità dell'una e unica volontà di vivere, che è l'individuo medesimo; invece il velo di Maja, come dicono gl'Indiani, turba lo sguardo dell'inconscio individuo: a lui, in luogo della cosa in sé, apparisce solo il fenomeno nel tempo e nello spazio, nel principio individuationis, e nelle rimanenti forme del principio di ragione. In questa limitata cognizione non vede l'essenza delle cose, che è unica, bensì i suoi fenomeni, distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori. Gli apparisce allora il piacere come alcunché di affatto diverso dal dolore; in un uomo vede l'aguzzino e l'assassino, in un altro il paziente e la vittima, distinte come due unità indipendenti sono per lui la cattiveria e la sofferenza. Vede taluno vivere nella gioia, nella sovrabbondanza, nei piaceri, e contemporaneamente altri morire di penuria e di freddo innanzi alla sua porta.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





Maja Indiani