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      Chi adunque è pervenuto alla suddetta conoscenza, intende chiaramente che, essendo la volontà l'in-sé di tutti i fenomeni, l'affanno inflitto altrui o personalmente sofferto, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre l'una e identica essenza; anche se i fenomeni, in cui questa e quella condizione si manifestano, esistono come individui distinti e addirittura separati da tempi e spazii lontani. Intende, che la differenza da ciò che produce il dolore a ciò che deve sopportarla è semplice fenomeno e non tocca la cosa in sé, ossia è la volontà in entrambi vivente; la quale, ingannata dalla conoscenza avvinta al suo servigio, se stessa disconosce, in uno dei propri fenomeni cercando accresciuto benessere, mentre nell'altro produce gran dolore; e così con violento impulso, ficca i denti nella sua carne medesima, non sapendo che ognora se stessa unicamente ferisce, palesando in tal modo, per il mezzo dell'individuazione, il contrasto interiore ch'ella trae nel suo intimo. Il tormentatore e il tormentato sono tutt'uno. Quegli erra nel non ritenersi partecipe del tormento, erra questi nel non ritenersi partecipe della colpa. Ove si aprissero a entrambi gli occhi, quegli, che infligge dolore, conoscerebbe di vivere in tutto quanto sul vasto mondo patisce tormento e invano si chiede, se dotato di ragione, perché sia stato chiamato a esistere in sì grandi dolori, che non sa d'aver meritati; e il tormentato conoscerebbe, che ogni malvagità, la quale viene commessa o fu un giorno commessa sulla terra, procede da quella volontà, che costituisce anche l'essere suo, che anche in lui si manifesta.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368