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      Invece, domanda di riveder anche l'affanno in quello stesso individuo a cui tocca la colpa. Quindi vorrebbero i più pretendere ancora, che un uomo fornito d'un alto grado di malvagità, grado che può trovarsi in molti uomini, ma non congiunto come in costui con altre qualità, il quale per non comune forza d'ingegno fosse agli altri di gran lunga superiore e quindi indicibili dolori procurasse a milioni d'uomini, per esempio come conquistatore; vorrebbero pretendere, dico, che un tal uomo espiasse quando che sia e comunque tutti quei dolori con una misura di dolori eguale. Imperocché non sanno, che in sé il tormentatore e i tormentati sono tutt'uno, e la medesima volontà, mediante la quale questi esistono e vivono, è pur quella, che nel tormentatore apparisce, e che appunto per mezzo di lui perviene alla più chiara manifestazione della propria essenza, e che soffre negli oppressi come nell'oppressore, anzi soffre in quest'ultimo tanto più, quanto più alta chiarezza e limpidità ha la conscienza di lui, e più grande veemenza ha la sua volontà. Che tuttavia codesta disposizione a chiedere tal forma di giustizia cessi d'ottenebrare la conoscenza più approfondita, non più imprigionata nel principio individuationis, conoscenza da cui viene ogni virtù e nobiltà d'animo, dimostra già l'etica cristiana, la quale vieta senz'altro di render male per male e fa operare l'eterna giustizia come fosse nel dominio della cosa in sé, diverso dal fenomeno («Mia è la vendetta, io voglio punire, dice il Signore»: Rom., 12, 19).


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





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