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      Perciò egli cerca solo il benessere proprio, affatto indifferente a quello di tutti gli altri, il cui essere è a lui del tutto estraneo, separato dal suo mediante un ampio abisso. Gli altri vede egli addirittura come larve senza realtà. E codeste due note sono gli elementi fondamentali del carattere malvagio.
      Quella grande vivacità del volere è intanto già in sé e per sé una perenne fonte di dolore. Dapprima, perché ogni volere, in quanto tale, deriva dalla privazione, ossia dal dolore (perciò, come il lettore ricorderà dal terzo libro, il momentaneo tacere della volontà, che si produce appena noi come puro, privo di volontà soggetto del conoscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo alla contemplazione estetica, è già per l'appunto un elemento principale della gioia provata davanti al bello). In secondo luogo, perché, in forza della causale concatenazione delle cose, quasi tutte le aspirazioni rimangono inappagate, e la volontà viene ben più spesso ostacolata che soddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte volere trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocché ogni soffrire non è null'altro se non inappagato e contrariato volere: lo stesso dolore del corpo, quando questo vien ferito o distrutto, è in quanto dolore unicamente possibile pel fatto, che il corpo non è se non la volontà medesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che molto e vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile, già l'espressione del volto in uomini assai cattivi ha l'impronta dell'interno dolore.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368