Quand'anche abbiano raggiunto ogni felicità esteriore, hanno sempre aspetto d'infelici, a meno che non si trovino in uno stato di giubilo momentaneo o che s'infingano. Da questo interno tormento, che in loro è proprio direttamente essenziale, vien prodotta in ultimo perfino quella gioia del male altrui, non più causata dal semplice egoismo, ma addirittura disinteressata, che è la malvagità vera e propria, e sale fino alla crudeltà. Per essa l'altrui dolore non è più un mezzo a ottenere il conseguimento dei fini della propria volontà, bensì scopo a se stesso. La precisa spiegazione di questo fenomeno è la seguente. Essendo l'uomo fenomeno della volontà, illuminato dalla più chiara conoscenza, paragona sempre l'effettivo, provato appagamento della sua volontà con quello, solamente possibile, che la conoscenza gli pone davanti agli occhi. Da ciò nasce l'invidia: ogni privazione viene infinitamente esasperata dall'altrui godimento, e sollevata dal sapere che anche altri patiscono la privazione medesima. I mali a tutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco ci turbano: e similmente quelli che al clima, al paese tutto appartengono. Il ricordo di mali maggiori, che non siano i nostri, placa il dolore di questi: attenua i nostri la vista dei dolori altrui. Ora, un uomo preso da un estremo, impetuoso impeto della volontà, con ardente cupidigia vorrebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete dell'egoismo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar che ogni appagamento è illusorio, né il bene conseguito mai corrisponde a ciò, che il bene desiderato prometteva, ossia definitivo cessare della rabbiosa sete; perché invece il desiderio con l'appagamento non fa che mutar di forma, e in forma nuova torturare ancora; anzi da ultimo, quando tutte le forme sono esaurite, la sete della volontà pur senza aspirazione consapevole permane, manifestandosi come insanabile martirio, qual sentimento della più atroce desolazione e del vuoto universale.
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