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      Perciò non dà il suicidio salvazione di sorta: ciò che ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli essere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli vuole. Quindi accanto alla cognizione soltanto sentita della pura apparenza e della nullità delle forme della rappresentazione, per cui vengono distinti gli individui, gli è l'autocognizione della propria volontà e del suo grado quella che dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale produce l'immagine del carattere empirico, di cui è originale il carattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questa immagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che il mondo partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata invece in linee così sottili, ch'egli solo le veda: che lui unicamente essa immagine tocca in modo immediato. Il passato sarebbe indifferente, come semplice fenomeno, e non potrebbe angustiare la coscienza, se il carattere non si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso il tempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato se medesimo. Perciò azioni commesse anche da gran pezzo pesano pur sempre sulla coscienza. La preghiera: «Non m'indurre in tentazione», significa: «Non lasciarmi vedere che io mi sia». Dalla forza, con cui il malvagio afferma la vita, e che gli si manifesta nei dolori da lui inflitti ad altri, egli misura quanto lontane siano da lui appunto la rinunzia e la negazione di quella volontà, che sono l'unica redenzione possibile dal mondo e dal suo male. Vede, fino a che punto egli al mondo appartiene ed è con esso avvinto: il conosciuto dolore altrui non è giunto a scuoterlo: della vita e del dolore direttamente provato egli è in pieno potere.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368