In fondo a questo è nondimeno un certo malinteso: imperocché il singolo uomo può, appunto essendo ricco e potente, al complesso dell'umana società rendere servigi sì considerevoli, da corrispondere all'ereditata ricchezza, della cui sicurtà egli va debitore allo Stato. Propriamente quell'eccessiva giustizia di cotali hindù è già più che giustizia: è reale rinunzia, negazione della volontà di vivere, ascesi; del che tratteremo da ultimo. Viceversa può il semplice far niente e il vivere delle forze altrui, con una proprietà ereditata, senza nulla operare, esser già considerato come moralmente ingiusto, anche se deve rimaner giusto secondo le leggi positive.
Abbiamo trovato, che la giustizia volontaria ha la sua più profonda origine in un certo grado di superamento del principii individuationis, mentre in questo principio riman sempre del tutto prigioniero l'uomo ingiusto. Codesto superamento può aver luogo non soltanto nel grado a ciò richiesto, ma anche in un grado maggiore, che spinge al benvolere e al benfare attivi, all'amor del prossimo: e questo può accadere per quanto forte ed energica sia in sé pur la volontà manifestantesi in tale individuo. Sempre può la conoscenza tenerlo in equilibrio, insegnargli a resistere alla tentazione dell'ingiustizia, fino a produrre tutti i gradi della bontà e addirittura della rassegnazione. Perciò l'uomo buono non va punto considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia dall'origine più debole dell'uomo cattivo: bensì è la conoscenza, che in lui governa il cieco impeto della volontà. Vi sono invero individui, che sembrano buoni sol per la debolezza della volontà in essi palesantesi: ma quel ch'essi veramente sono appare presto dal fatto, che sono incapaci d'ogni notevole sforzo su se medesimi per compiere un'azione giusta o buona.
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