Tra le due conoscenze è un ampio abisso, attraverso il quale, riguardo alla cognizione dell'essenza del mondo, la sola filosofia può condurre. Intuitivamente invero, ossia in concreto, ogni uomo è consapevole di tutte le verità filosofiche: ma portarle nel suo sapere astratto, nella riflessione, è affare del filosofo: il quale, oltre a questo, nulla deve, nulla può.
Forse qui adunque per la prima volta, in forma astratta e pura d'ogni mito, l'intima essenza della santità, negazione di sé, morte della volontà, ascesi, è formulata come negazione della volontà di vivere; la quale subentra dopo che la compiuta conoscenza del proprio essere è divenuta quietivo d'ogni volere. Viceversa l'hanno direttamente conosciuta ed espressa nella realtà tutti quei santi e asceti che, pur avendo la stessa intima cognizione, parlavano una lingua assai diversa, secondo i dogmi che avevano accolti nella loro ragione, e in virtù dei quali un santo indiano, cristiano, lamaico devono render diversissimo conto della propria azione; il che è, per la sostanza, del tutto indifferente. Un santo può esser pieno della più assurda superstizione, o esser viceversa un filosofo: i due si equivalgono. Soltanto il suo modo d'agire prova ch'egli è santo: perché esso, sotto il riguardo morale, non proviene dalla conoscenza astratta, bensì dall'intuitiva, immediata conoscenza del mondo e della sua essenza; e da quegli sol per appagamento della sua ragione viene spiegato con un dogma purchessia. Che il santo sia un filosofo, è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo bellissimo sia un grande scultore, o che un grande scultore sia pure un bell'uomo.
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