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      Nondimeno questa cognizione può esser dapprima destata da mali personalmente sofferti, soprattutto da un unico grande dolore. Così un'unica, inappagabile brama ha condotto Petrarca a quella rassegnata mestizia nel considerar la vita intera, che tanto ci commuove nelle sue opere: imperocché la Dafne ch'egli inseguiva doveva sfuggire dalle sue mani, per lasciare a lui, in luogo di se stessa, l'alloro immortale. Quando la volontà, per un tal grande e irreparabile diniego del destino, è rotta ad un certo grado, non viene quasi più null'altro desiderato, e il carattere si mostra dolce, triste, nobile, rassegnato. Quando infine il dolore non ha più una casa determinata, ma si estende sul complesso della vita, allora esso è in certo modo un rientrare in sé, un ritirarsi, un graduale svanire della volontà. E la visibilità di questa, il corpo, finisce con l'essere a poco a poco, ma nel più profondo, minata dal dolore; in ciò l'uomo sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un dolce presentimento della morte annunziantesi insieme col dissolvimento del corpo e della volontà. Perciò tale dolore s'accompagna con una segreta gioia, quella, secondo me, che il più malinconico di tutti i popoli ha chiamato the joy of grief. Tuttavia si trova proprio qui lo scoglio della sensibilità, sia nella vita, sia nella rappresentazione poetica di questa: se cioè si soffre sempre, e sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e fortificarsi, ci si trova ad aver perduto insieme terra e cielo, conservando solo una lagrimosa sensibilità. Il soffrire è via di redenzione, e degno quindi d'alto rispetto solo in quanto prende la forma della semplice, pura conoscenza; e questa allora, fattasi quietivo della volontà, produce vera rassegnazione.


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Il mondo come volontà e rappresentazione
Tomo II
di Arthur Schopenhauer
pagine 368

   





Petrarca Dafne