Sotto tale riguardo proviamo alla vista di ciascun grande infelice un certo rispetto, affine a quello che virtù e nobiltà ci inspirano; innanzi a lui ci sembra un rimprovero la nostra condizione felice. Non possiamo trattenerci dal considerare ogni dolore, sia nostro che altrui, come un ravvicinamento, per lo meno possibile, alla virtù e santità; e considerare invece i piaceri e le soddisfazioni terrene come un allontanamento da quelle. Ciò arriva al punto, che ogni uomo il quale patisca una grande sofferenza corporea, o una grave sofferenza morale; o anche addirittura ogni uomo, che compia col sudore nel volto e con visibile sfinimento un semplice lavoro fisico richiedente il massimo sforzo; e tutto ciò sopporti pazientemente e senza mormorare; quest'uomo, dico, quando lo guardiamo con profonda attenzione, ci appare come un malato: il quale faccia una cura dolorosa, ma sopportando di buon animo e addirittura con piacere il dolore, che da quella gli viene, perché sa che quanto più soffre, tanto più sarà estirpata la causa del male. Il dolore presente è la misura della sua guarigione.
Da quanto s'è detto finora apparisce che la negazione della volontà di vivere, la quale è quel che si chiama rassegnazione completa o santità, proviene sempre dal quietivo della volontà, ossia dalla cognizione dell'intimo dissidio a questa inerente, e della sua essenziale vanità, che si manifestano nei dolori d'ogni essere vivente. La differenza, che noi indicammo con l'immagine delle due vie, è questa: se quella cognizione è generata dal dolore semplicemente conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante il superamento del principii individuationis; oppure dal dolore direttamente, personalmente provato.
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