Riflettiamo che coscienza, religione e tutti i concetti appresi gli fanno scorgere nel delitto il più grave misfatto, e nondimeno ei lo commette nell'ora della sua propria morte, senza poter avere in ciò il minimo motivo egoistico. Il suo atto si spiega solo pensando, che qui la volontà dell'individuo si riconosce direttamente nei figli, ma prigioniera tuttavia dell'errore che scambia il fenomeno con la cosa in sé; e così, profondamente scossa dalla cognizione del dolore inerente a ogni vita, ritiene allora di sopprimere col fenomeno l'essenza. Quindi se stessa ed i figli, nei quali si vede direttamente rivivere, vuol salvare dall'esistenza e dal suo tormento. Un errore del tutto analogo a questo sarebbe il pensare che la stessa mèta, a cui si perviene mediante volontaria castità, possa venir raggiunta con l'impedire i fini della natura nell'atto del generare, o addirittura col procurar la morte del neonato, in considerazione dell'inevitabile dolore della vita, invece di far viceversa il possibile, perché la vita sia assicurata a ognuno che nella vita vuole entrare. Imperocché quando esiste volontà di vivere, nessuna forza può distruggerla, essa che è la sola realtà metafisica, la cosa in sé; ma unicamente può distruggere il suo fenomeno nello spazio e nel tempo. La volontà non può venir soppressa che dalla conoscenza. Perciò unica via di salvazione è che la volontà si palesi liberamente, per poter conoscere, in questo suo palesarsi, la propria essenza. Solo quando tale cognizione è raggiunta può la volontà sopprimere se stessa e quindi anche dar termine al dolore, che dal fenomeno di lei è inseparabile: ma non vi si perviene invece con violenza fisica, come sarebbe distruzione del germe, uccisione del neonato, o suicidio.
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