Una mattina si udì un suono di tromba, e poi un grido doloroso. La mamma si fece alla finestra, io volevo vedere anch’io, ma ella mi prende per mano, e cade lunga per terra. Mio padre esclama: “È la frusta! oh, a che siamo giunti!” e chiuse tutti i vetri: mia madre poi mi contò lo strazio veduto, un uomo legato sopra un asino, con le spalle nude, la mitera in testa, circondato da soldati tedeschi, battuto dal boia. Era il supplizio che il Canosa dava ai carbonari. Non ho dimenticato mai quel suono di tromba, quel grido, e mia madre per terra.
La sera venivano a visitare mio padre alcuni pochi amici, e con lui s’intrattenevano a ragionare: fra gli altri era un certo don Scipione Laurenzano che mi voleva un gran bene, e aveva una buona e brutta moglie4, la quale mi dava sempre zuccherini e baci, ed io per quei zuccherini qualche bacio le rendevo, ma ad ogni cento de’ suoi uno de’ miei. Il dabben uomo fu privato anch’egli d’un suo uffizio, e si lamentava, e una sera diceva: “Hanno detto che io fui in chiesa con la fascia: questa è calunnia: io ci fui ma senza fascia”. A questo io salto in mezzo e dico al mio don Scipione: “Sissignore, l’avevate, e mi deste a me la coccarda”. Mio padre impallidì, mia madre si levò, e afferratomi per un braccio mi condusse in un’altra camera, e mi sgridava che i fanciulli non debbono parlare se non dimandati. “Ma io ho detto la verità.” “Zitto, figlio, ché tu lo faresti impiccare.” E mi metteva la mano su la bocca. Capii che avevo fatta una cosa grossa.
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