Era l’anno del giubileo 1825, ed essendo l’animo mio così addolorato giunse il tempo degli esercizi spirituali che si facevano nei collegi ogni anno. Ci venne un vecchio arciprete6 che parlava molto semplice e acconciamente: ed io mi sentivo entrare nell’anima le parole di quell’uomo di Dio, e vi facevo su lunghe meditazioni. Il De Silva ne fu colpito anch’egli, ed entrambi cominciammo a ragionare della gran vanità di questo mondo, della morte vicina, dell’inferno spalancato innanzi ai nostri piedi, e delle gioie del paradiso. Ogni stella che ci vedevamo splendere sul capo ci pareva la faccia di un angelo o di una vergine che ne sorrideva e ci chiamava lassù a vedere le bellezze del cielo e a cantare le lodi di Dio. Ci demmo alla più focosa divozione: non più scherzi, non giuochi, non ballo, non scherma, ché ne parevano cose profane; anzi le stesse lezioni di scuola erano mondanità, le facevamo per obbligo, poi a leggere vite di santi, prediche, salmi, orazioni. Io volevo intonare sempre io il rosario per farlo recitare più adagio, ed in fine delle litanie aggiungevo una ventina di santi, senza curarmi che alcuno dei compagni si contorceva, e dicevami sottovoce: “Finiscila a canchero, ché mi fanno male le ginocchia”. Ogni sera prima di andare a letto stavo almeno un’ora con la faccia per terra a recitar paternostri, avemarie, e salveregine. Ci chiamavano i monaci, perché noi dicevamo che non si può essere santo se non si è frate, e il De Silva voleva farsi trappista, io camaldolese o almen cappuccino.
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Dio De Silva Dio Finiscila De Silva
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