Poi leggemmo l’Ariosto, e ne imparammo a mente i canti più belli. Intanto facevamo le nostre osservazioni su le cose che ci circondavano; e una volta io vedendo gli alberi tagliati in modo da parere una muraglia verde, avendo la fantasia a le foreste americane, dissi al compagno: “Vedi come l’uomo guasta la natura e crede di correggerla. Io scriverei un libro su questo taglio degli alberi”. “Un libro? vah! e che diresti?” “Che è una tirannide, e che si potano gli uomini e gli alberi al modo stesso.” “Oh, sta zitto, che qui ci può sentire qualcuno.” E seguitammo a leggere l’Ariosto. In mezzo a quegli alberi, a quelle erbe che mandavano mille odori, io mi sentivo rapito come in un altro mondo, e facevo quei castelli che si fanno in quella beata età di quattordici anni. Un giorno mio padre sorridendo mi dice: “So che stai scrivendo un libro”. “Io? no. E su di che potrei scrivere un libro io?” “So che scrivi su certi alberi.” “Oh, lo dissi per dire; ma Salvatore è una spia.” “Spia no, ma più prudente di te che parli di tirannide in un luogo reale dove puoi essere ascoltato”. Salvatore de Spagnolis, disonorando la sua onesta famiglia, fu commessario di polizia, ed ebbe tristo nome al tempo dell’ultimo Borbone. Cominciò la sua arte da allora: io mi allontanai da lui, e fatto giovine non più gli parlai ne lo vidi.
Andavo solo nel bosco, ed in altre ore. E per dirvi la verità davvero io ci andava per un’altra ragione, perché ci avevo adocchiata una fanciulla figliuola d’un custode, la quale era poco minore dell’età mia, e pareva una farfalletta, rideva sempre e si moveva, e mi lanciava occhiate.
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