Una mattina in un viale me la vedo innanzi saltante come una cavriuola. “Come ti chiami?” “Angelina.” “Mi vuoi bene?” Si messe a ridere e fuggì via. Quasi ogni giorno la vedevo, e come io mi avvicinavo ella fuggiva, fuggiva con certi piedini d’uccello che parevano non toccare la terra. “Ma rimani un po’, non fuggire: ho a dirti tante cose.” “E dille.” E con grazia fanciullesca cavava la lingua fuori, e mi dava la baia, e poi via, ed io dietrole, e ci seguitavamo come due cagnuoli. Una volta mentre io voleva proprio afferrarla, voltando un viale mi trovo innanzi la Regina Isabella: rimango freddo, piantato, non so altro che sberrettarmi. Ella che aveva veduto la fanciulla ed il giuoco, corrispose al mio saluto con un sorriso e una scrollata di testa: disse alla donna che l’accompagnava alcune parole che io non intesi, e si voltò due volte a riguardarmi sorridendo. Che volete? ero bimbo ancora, ed ebbi paura: credetti di aver fatto un marrone , e che mi avrebbero carcerato: onde stetti in casa, e per un pezzo non tornai al bosco. Qualche tempo dopo rividi altrove l’Angelina, che mi voltò la faccia, e così mi punì della sciocca paura che io ebbi della Regina, la quale andava nel più fitto del bosco per sue divozioni, ed io non sapeva ancora che ella aveva un cuore d’acqua, e non avrebbe mai fatto male ad un giovanotto come me che avevo le prime calugini.
Così faceva i miei studi e le mie mattie, che furono parecchie, e saria lungo contarle tutte. Erano quelle che fanno tutti i giovani nella prima età e che malamente si chiamano impertinenze, perché elle sono pertinentissime alla giovinezza anzi sono il senno di quei begli anni.
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