A me piaceva la loro compagnia perché essi avevano quello che a me mancava e voleva acquistare, pronti, arditi, parlavano facilmente: in mezzo a loro io non ero un asino, ma non mi sapevo far largo, rimanevo sempre indietro, parlavo poco, avevo paura di dire sciocchezze, credevo che bisogna parlare come un libro, guardavo gli altri e talvolta ne ridevo, e come potevo scoccavo qualche parola che mi faceva rispettare e voler bene.
Nella scuola dell’abate Furiati eravamo oltre quattrocento, tra cui due o tre facce non giovanili e d’aria sinistra, che noi credevamo fossero spie, e quando comparivano in mezzo a noi, acqua in bocca; e chi poteva far loro un dispetto lo faceva.
Il Furiati era un giureconsulto valente, e benché fosse anche egli scritto nel libro dei sospetti, pure perché era prete e pieno di piacevolezze lo tolleravano. Io studiavo le Istituta di Giustiniano, ma di mala voglia, e solo per ripetere la lezione quando il mio nome usciva dall’urna, poi a leggere Dante, e sciorinar versi a dilungo per me e per i compagni che se ne facevano belli con le fanciulle loro conoscenti. Che bei giorni! come era dolce l’amicizia in quegli anni! Quell’allegria anche quando la scarsella era vuota, quella scapataggine, quella sicurezza dell’avvenire, quelle speranze, quei motti, quelle risate, quegli scherzi dove son iti? I giovani, tranne pochissimi, sono tutti buoni, col cuore aperto, amano ogni azione bella e generosa, hanno l’istinto del bene, e io li trovavo tutti liberali; ma di poi chi chiappa un uffizio e per mantenerselo imbirbonisce, chi si gonfia e sta sul grande per amicizia e ricchezze acquistate: l’interesse guasta quei cuori schietti, avvelena quelle anime pure, e non v’è più mezzo di cavare questa brutta serpe una volta che si è rimbucata nel petto.
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