Era vestito d’un soprabito verde, aveva la faccia molto bianca, volgeva intorno certi occhi di gatto irrequieti, e ghignava per celare l’interno corruccio. I quattro erano un D’Alessandro procurator generale, un Giambattista de Gattis proprietario di Martirano, un Vincenzo Gatto dipendente di costui, un Raffaele d’Agnese, segretario dell’intendente. Nel giudizio i calabresi dimandarono di costituirsi accusatori e parte civile, dicendo i loro avvocati che il de Matteis aveva calunniato e straziato un popolo sempre fedele e prodigo di sangue a la causa del re; ma la loro dimanda non fu accolta, e l’accusa fu sostenuta dall’avvocato generale Celentano, bravo magistrato, che ardì cercare a morte i rei. Venivano i testimoni dalle Calabrie (e noi altri giovanotti, sapendo che la prima nave a vapore che toccò i lidi di Calabria imbarcò quei testimoni, dicevamo che la novella invenzione serviva a la causa della libertà), quei testimoni, quelle povere donne, quei vecchi, quei sacerdoti che narrando quanto avevano patito levavano alto le mani storpiate da le torture, facevano nascere un rumore sdegnoso fra gli uditori, ai quali si volgeva pallido ed accigliato il De Matteis. Alle accuse non rispondeva altro che “Menzogna, intrigo carbonico”: e quando alle pruove delle sue crudeltà non poteva contraddire rispondeva con quelle parole che ancora mi suonano nell’orecchio: “Ho trascorso per Cesare, e Cesare saprà perdonare il mio soverchio zelo”.
Mentre si faceva in Napoli questo giudizio, re Francesco era andato in Ispagna a condurre la figliuola Cristina sposa a Ferdinando VII, e seco aveva condotto il Medici, il quale in Ispagna si morì.
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