Non vi lascio ricchezze, ché non ne ebbi, e a pena giunsi col lavoro a sostentare la vita: vi lascio un nome onesto di cui non avrete mai ad arrossire. Nessuno vi dirà di avere avuto male da me, qualcuno vi dirà che Raffaele Settembrini gli ha fatto del bene. Ho dolore a lasciarvi così fanciulli e poveri, ma vi sarà padre Iddio. Fidate in lui, amatevi fra voi, amate il lavoro, e siate benedetti. A te, o Luigi, raccomando i tuoi fratelli minori e la sorella. Mettetemi a riposare accanto a vostra madre nella chiesa di Santa Lucia”. Moriva il 26 settembre 1830. Questa è l’eredità che mi lasciò mio padre, questa io lascio ai miei figliuoli, e però scrivo queste parole. Con lui perdemmo tutto: e da quel giorno cominciò per me e per i miei poveri fratelli una lunga serie di dolori che non hanno avuto più fine. Eravamo sei fanciulli, di cui, io che ero il maggiore, avevo diciassette anni. La madrigna si ritirò in sua casa: noi fummo dispersi: Peppino andò in Catanzaro da zio Clemente fratello di nostro padre; Vincenzo, Teresa, Alessandro andarono in Avellino in casa del nostro avo materno avvocato Francesco Vitale: Giovanni venne con me in Santa Maria di Capua dove sono i tribunali e dove io andai per fare l’avvocato.
Nostro tutore fu l’ingegnere Filippo Giuliani, marito d’una sorella di mia madre, padre di bella e numerosa famiglia, ed egli stesso bellissimo uomo, coi capelli d’argento, vestito pulitissimo; sempre sorridente e piacevole, di ottimo cuore, splendido nella vita, amato assai da mio padre: ed egli prese cura di noi, ma dopo pochi anni morì anch’egli, e lasciò i suoi figliuoli come noi altri.
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