Fuggivo i compagni che mi puzzavano di curia, e me ne andavo solo fra le rovine dell’anfiteatro campano, dove rimanevo molte ore pensando all’antica grandezza di Capua, ad Annibale, a tutta la storia di Livio, ed a quei tempi tanto diversi dai nostri, nei quali non ci erano tanti avvocati e tante carte scritte. Per uscire di quel ginepraio di liti civili, e per farmi un po’ di nome, pensai di difendere ufficiosamente, come sogliono i giovani, qualche causa criminale, e ne pregai un presidente, che mi disse bravo, e me ne diede volentieri. Difesi due ladri, due poveri uomini che per fame avevano rubato, uno un lardo, ed uno un tavolone, ed avevano confessato il furto. Io ci messi tutta l’anima nella difesa: hanno rubato sì, ma per fame, e la fame è terribile consigliera, essi meritavano pietà più che pena. I giudici sorridevano mentre io parlavo. “Ho vinto”, dissi tra me. La sentenza fu condanna e al massimo della pena. Mi venne la febbre, gettai via i codici, maledissi tutte le cause civili e criminali, fuggii da Santa Maria dove ero stato sei mesi, e me ne tornai in Napoli, col fermo proponimento di farmi piuttosto tagliar le mani che toccar codici e processi.
E poi era il 1831. Mentre il mondo pareva andare sossopra: la Francia, la Polonia, l’Italia superiore in gran movimento; mentre si attendevano nuovi rivolgimenti politici nel regno, io non trovavo un cane con cui sfogarmi di quattro parole su le cose del mondo, ma sempre cause, e maledette cause.
Mi parve adunque di essere fuggito di un carcere, di respirare aria più pura, udire linguaggio più umano, non vedere più quelle facce brutte come la carta bollata, ma visi di cristiani, e un certo visetto che mi stava sempre innanzi agli occhi, e non l’avevo potuto dimenticare mai.
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