Questo abborrimento d’ogni cosa forestiera, questo napolitanismo gretto e pettegolo era pure un sentimento nazionale rappiccolito, così che il regno acquistò una certa personalità che prima non avea.
Io dunque vedevo intorno a me un gran muoversi ed ordinarsi di soldati, assistevo a gran dispute di scolari nelle cose della filosofia e della lingua; udivo un gran parlare di avvenimenti politici, un chiedere e dare novelle, e sentivo che una febbre politica faceva battere molti cuori come il mio.
Dopo il 1830 nacque una nidiata di giornali, che sebbene parlassero di sole cose letterarie, e dicessero quello che potevan dire, pure ei si facevano intendere, erano pieni di vita e di brio, e toccavano quella corda che in tutti rispondeva. Era moda parlare d’Italia in ogni scritturella, si intende già l’Italia dei letterati: e sebbene molti avessero la sacra parola pure al sommo della bocca, nondimeno molti altri l’avevano in cuore. Si leggeva con ardore le istorie del Botta, e si attendeva quella del Colletta, non v’era chi non parlasse delle Prigioni del Pellico, ogni giovanotto sapeva a mente le poesie del Berchet: tutti palpitavano a leggere l’Ettore Fieramosca del D’Azeglio; gli artisti rappresentavano in diverso modo il campione d’Italia, e chi amava le armi si faceva bello di possedere lame di spade e di pugnali su cui era scritto il giorno e l’ora del duello di Barletta. Di Dante non vi dico nulla: era l’idolo degli studiosi: egli rappresenta la grande idea della nostra nazionalità, egli il pensiero, l’ingegno, la gloria, la lingua d’Italia.
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