La sostanza di tutte quelle scritture era poca e magra, ma in mezzo alle cose anche frivole appariva di tanto in tanto un lampo di amor patrio, un gran pensiero che non poteva spiegarsi intero nella sua forma perché mancava la libertà, e veniva fuori a squarci ed a pezzi.
Fra tanti che scrivevano potevo scarabocchiare qualcosa anch’io: ma ero giovane, sapevo poco, avevo un certo pudore, e dicevo fra me: “Stampare! farsi maestro agli altri! ma bisogna avere il sacco pieno, e dir cose serie e non frasche!” E poi il revisore mi faceva spavento: presentare uno scritto al revisore, e vederselo tagliare, cancellare, guastare, mi pareva l’ultima vigliaccheria di questo mondo. Ho fatto vari peccati in vita mia, e me ne pento; ma quello di sommettermi a un revisore no, neppure una volta. Un amico lontano mi pregò di fargli stampare un libro su la città di Sibari, e io dovetti assistere il revisore parroco Giannattasio, il quale cassò queste parole “sacerdote dell’idolo” che erano scritte, e ci messe queste altre “ministro dell’idolo”; cassò molte parti qua e là, e cassò quanti “eziandio” vi erano, e scrisse “ancora”. Il re faceva scrupolo, come ei diceva, a vedere Dio messo in una congiunzione. A quelle correzioni io sentii una stizza, un furore che avrei menato le pugna e fatto una rovina. I miei amici ridevano, e mi chiamavano ragazzo: essi col revisore giuocavano d’astuzia, pigliavano giri larghi e parole generali, si ravviluppavano in linguaggio tenebroso, e qui potet capere capiat: io non lo sapevo fare, e mi rodevo perché volevo dire schietto e corto, ed essere inteso da tutti.
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