Se n’è ita, e non mi ricordo più che i primi tre versi:
O caste Muse, al vostro santo ostello
Io vengo accusator di gente vile
Che forma delle lettere un bordello.
Un avvocato Gian Domenico Lanzilli si sentì offeso, e mi rispose: io replicai più salato: si offesero altri, e io ebbi brighe e parole. Per farmi paladino della poesia poco mancò non fossi accoppato e fatto a pezzi dall’irritabile genia dei verseggianti. Ci vollero gli anni ed i guai per cavarmi del capo quel ruzzo di far versi. Tutto questo avvenne come in un bicchier d’acqua.
Le buone accoglienze e i consigli di mia zia m’indussero a tornare più volte in quella casa la sera. Ivi in una stanza si giocava a carte, in un’altra si chiacchierava, si sonava il pianoforte, e quando c’erano alcune paia di fanciulle e giovinetti si ballava a la lunga. Ci venivano signori e cavalieri, e magistrati, ed avvocati; e don Domenico gonfio e inamidato si sbracciava ad accogliere tutti, conversava con tutti, diceva piacevolezze a le fanciulle, adulazioni a le mamme, qualche motto buffonesco ai giovanotti sotto voce, andava sempre attorno e smoccolava i lumi. Donna Mariantonia o giocava a mediatore, o parlava di matrimoni, di doti, d’amori, di camerieri, di Ciccillo, un suo figliuoletto di sette anni che per voto fatto in una malattia l’avevano vestito da frate domenicano. Fra tante persone io non trovavo con chi parlare, mi sentivo impacciato fra sconosciuti, non sapevo il frasario della conversazione, temevo di dire spropositi o goffaggini, e arrossivo a udire alcuni uomini che ne dicevano tanti con la maggiore sicurezza del mondo: io non sapevo e non potevo parlare.
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