Bisognava dirne tre, ed egli non poteva finirne una: se ne cavò a la meglio, e le altre due se le udì chi volle quando fu levato il sole: io ne ebbi abbastanza. Finita adunque la messa, ciascuno andò a casa a dormire; e l’altro dì, secondo l’usanza, si tornò al pranzo che fu anche sfoggiato e lunghissimo.
Un giorno si andò ad una scampagnata sul Vomere, ed io celiai più dell’usato con la letteratina che aveva una parlantina speditissima. Ma come entrammo nella villa Ricciardi, e ci venne scontro Urbano Lampredi, vecchio venerando per fama d’ingegno e di studi, ed ivi ospitato, io piantai la fanciulla e diedi il braccio al buon vecchio. Egli mi fece molte dimande dell’esser mio, dei miei studi, e mi disse parole amorevoli, e quando udì il mio nome, mi dimandò: “N’êtes-vous pas un septembriseur?” e rise piacevolmente. Stetti un paio d’ore accanto a lui, udendolo parlare e recitare versi, e raccontare aneddoti del Monti e del Foscolo. Quando tornai a la fanciulla la trovai fieramente sdegnata, e in quel giorno non mi volse più la parola.
In questo mondo, dove mia zia mi ripeteva che rimanessi e ci troverei il buono, io non potevo più stare perch’io ero noiato e indispettito. “Oh questo che tu ci mostri non era poi tutto il mondo: ma uno spicchio di esso, e forse non il più bello; in una città sì grande dovevano essere altre brigate, dove c’era da apprendere.” Forse c’erano, ma io non le so: questa ed altre poche simili a questa io vidi allora, e ve l’ho dipinta come la vidi. Uomini non tristi ma inetti, donne non brutte ma insipide, giovani frollati e ignoranti che non parlavano d’altro che di femmine di vestiti d’impieghi, nobili goffi come servitori, qualche magistrato che sapeva più di gastronomia che di leggi; non parlar mai di cose pubbliche, né di arti, o di scienze, o di lettere; pettegolezzi, maldicenze, divozioni: questa era la commedia nella quale io dovevo entrare a farvi la mia parte.
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