C’era qualche tristo codardo: c’era ancora qualche dabbenuomo che sapeva solo una cosa, e nel resto era ignorante. Sentite che mi accadde un giorno con un professore che sapeva bene una cosa sola: e non lo dico per male. Dopo la lezione uscimmo insieme, ed ei non sapendo bene le vie mi pregò che lo accompagnassi al Carmine. Quando giungemmo presso la piazza del Mercato, io così per un dire gli dissi: “Quante cose ricorda questo luogo!” “E che ricorda,” rispos’egli, “gl’impiccati?” “Qui in mezzo alle due fontane fu decapitato Corradino, e il suo cugino.” “Era un bandito questo Corradino?” “Oh no, era figlio del re Corrado, erede del trono di Napoli, allora occupato da Carlo d’Angiò, che lo fece prigione e gli mozzò il capo. Era un giovanetto di sedici anni, e il cugino ne aveva diciassette.” “Che crudeltà contro due fanciulli! E pure Carlo era fratello di san Luigi Gonzaga!” “No, Luigi IX di Francia.” “E nessuno diede un cazzotto a quel birbante di Carlo?” “Glielo diedero i siciliani al Vespro.” E troncai un discorso che mi aveva fatto salire le vampe al viso. Eppure il professore sapeva benissimo il latino, ed era mio maestro, e si faceva voler bene.
Raramente i professori erano scelti per meriti; ordinariamente per concorso, specie di giuoco che non dà mai il migliore, a cui gli uomini riputati non si cimentano, ma vi si arrischiano i giovani che non hanno che perdere, e chi per avventura sa bene quell’una cosa che è dimandata vince gli altri che ne sanno molte. E poi il governo circondato sempre da spie, da adulatori, e da quelli che usano il sapere a tristizie, non conosceva i valori onesti, o se li conosceva li aveva sospetti per politiche opinioni, e li escludeva anche dai concorsi: onde spesse volte le cattedre erano date a sfacciati ciurmadori.
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