Eravamo ascoltatori soliti un quattro o cinque giovani, tra i quali era Giovanni Calvello, ora professore di storia antica, e fin da allora uomo di animo e di costume antico, ed amico mio carissimo. Il Bianchi ragionava con noi, come con amici, e soltanto quando ci capitava qualche sconosciuto faceva un po’ di diceria distesa. Non usava come gli altri professori, che come scoccava la mezz’ora rompevano a mezzo il discorso, ma s’intratteneva con noi lungamente, e ci diceva molte belle cose, e finita la lezione lo accompagnavamo per buon tratto di via, e seguitavamo a ragionare. Quando ero io solo con lui, egli usciva a la politica, parlava de’ tempi trascorsi, di molti uomini, di molti avvenimenti, e ne giudicava con senno severo: e se parlava di quella che egli chiamava “casta pretesca” non sapeva frenare lo sdegno e diceva: “È nemica di Dio e di Cesare: fu, è, e sarà principale cagione della servitù d’Italia. Credete a me, che conosco quali visi si nascondono sotto quelle maschere”. Era egli un uomo che bisognava guardare da vicino, e allora lo stimavi e lo amavi. Poco eloquente, di maniere modeste, un po’ pedante ma dotto assai, liberi sensi, gran bontà d’animo. Ogni volta che mi partivo da lui aveva imparata qualche cosa: però la sua memoria mi è cara ed onorata. Si piacque molto e mi lodò di due miei scritti, li fece leggere a monsignore Colangelo presidente dell’istruzione pubblica, e gli disse di propormi a professore in un collegio. Monsignore, che era come un ispido cinghiale, volle vedermi, mi accolse bene, e mi propose al ministro, il quale rispose che le cattedre si davano per esame.
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