Il Puoti escluso dall’uffizio pubblico, si messe privatamente a fare quel bene che si era proposto, a ristorare la lingua già guasta e imbarbarita. Voi sapete che quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto; e che quando gli ritorna il pensiero e il sentimento della sua passata grandezza, la lingua ritorna appunto all’antico. Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferrruccio parlava. Sapete infine che parecchi valenti uomini si diedero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancor credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale. Ora tra questi valenti uomini fu il marchese Basilio Puoti, il quale lasciato il titolo, la primogenitura, e il governo della famiglia al suo fratello minore, si messe ad insegnare gratuitamente le lettere e la lingua d’Italia. Eg1i non era uno scrittore, non aveva concetti nuovi e grandi, e arte di tirare a sé i leggitori; ma era un solenne maestro, aveva giudizio rotto, gusto squisito, amore grande agli studi ed ai giovani: era cote non rasoio. Eppure se avesse scritto come ei parlava, con quei motti, con quei frizzi, quelle ire subite, e poi quell’abbandono e quella bonarietà tutta sua, sarebbe stato piacevolissimo: ma la troppa arte lo impacciava, lo rendeva un altro uomo quand’ei scriveva, e non ti pareva più napoletano.
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