Vediamo quello che sai: spiegami un po’ degli Uffici di Cicerone”. Spiegai, risposi a varie dimande: “Bene, batti sul latino ogni giorno: ogni giorno una traduzione dal latino, e una lettura d’un trecentista. Nulla dies sine linea”. E mi accettò tra i suoi scolari. Ei non viveva che di studi, in mezzo ai giovani ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi passeggiava, con essi lavorava ai comenti dei molti classici che fece ristampare per diffondere la buona lingua; ad essi dava consigli, libri, avviamento; molti ritrasse da pericoli, a molti diede anche del suo. Sapeva bene il latino, bene il greco antico, parlava il moderno, benissimo il francese: pieno di motti e di lepori, facile all’ira, facilmente placabile, ebbe animo sempre giovanile, e seppe mettersi a capo di dugento giovani senza dare sospetto a chi reggeva. Una volta mi disse: “Pare piccola cosa quella che io fo, ma quando sarò morto la intenderete. Se io vi dico di scrivere la vera lingua d’Italia, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente, e avere in cuore la patria nostra. Tu vedrai altri tempi, e spero farai intendere ciò che io ho tentato di fare, e non dimenticherai l’amico della tua giovinezza”. Degli scolari del Puoti alcuni sono rimasti fedeli alle sue dottrine ed hanno coltivati studi grammaticali, come il Rodinò, il Melga, il Fabbricatore; altri di maggiore ingegno, e di più larghi studi, le hanno interamente abbandonate, come Francesco de Sanctis ed Angelo Camillo de Meis, in quella guisa medesima che si abbandona i primi elementi in ogni disciplina e si procede innanzi nel vasto campo della scienza.
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