Così la prima volta la vidi da vicino e le parlai. Ella aveva nome Raffaella Luigia Faucitano; era un fiorellino di sedici anni, era timidissima, quella che poi divenuta donna doveva soffrire tanto e con tanto coraggio; e lavorava a’ suoi bellissimi ricami, ed anche parlando con me non ismetteva da’ suoi lavori, e di tanto in tanto alzava gli occhi e mi guardava con un sorriso che mi faceva tremare.
Io volevo ottenere la cattedra di rettorica e lingua greca vacante nel liceo di Catanzaro, perché in quella città era mio fratello Peppino, e ci era andato anche Giovanni, e con me erano rimasti gli altri due fratelli minori e la sorella, essendo già morti i nostri nonni e l’ottimo zio Filippo Giuliani nostro tutore: e così io volevo riunire colà la sparsa famigliuola. Però mi preparavo al concorso, e studiavo chi vi può dire come e quanto? Avevo dinanzi a me due premi bellissimi, una cattedra, e la mia Gigia. Talvolta mi veniva uno sgomento, e dicevo a lei: “Ma sarò io professore?” “E di che temi? tu studi tanto!” “E se mi faranno un torto? e se nell’esame io mi confondo?” “Non te lo faranno, né ti confonderai se tu mi ami davvero”. “Se ti amo?” “Ebbene, raccomandati ad Amore: esso è un santo che sa fare di grandi miracoli”. Così ella mi rianimava e mi accendeva. Io non perdevo briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero, e ne andavo ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e mi scordavo d’Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni d’amore e di speranza?
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