Come udii le tesi respirai, e non tremai più, anzi con una certa baldanza mi apparecchiai al duello col mio avversario. E l’arena di quel duello fu la sala del museo mineralogico, dove tredici anni dopo, nel 1848, fu la Camera dei deputati. Scrissi di forza, e scrissi il comento filologico tutto in greco, e questo fece un gran colpo: i professori mi credettero un ellenista valente, poco meno che un Errico Stefano, ed io non era altro che un pappagalletto ardito che ricordavo sino i punti e le virgole: ora tutto quel greco se n’è ito. Otto giorni dopo recitammo un discorso italiano per dar pruova come s’ha a parlare da la cattedra. La facoltà diede il suo giudizio, e lodato il mio avversario nominò me professore. E così per quattro scarabocchi latini e quattro greci mi diedero una cattedra di eloquenza, mentre avevo ventidue anni, sapevo tanto poco, e avevo bisogno di andare a scuola. Ci voleva la laurea, e senz’altro esame me la diedero, ma dovetti pagare, perché quando si tratta di quattrini non c’è greco ne latino che tenga, la facoltà di letteratura non intende di finanze, e bisogna pagare. Subito andai da la mia fanciulla che mi accolse festosa, e mi diede il primo bacio. Sono vecchio di sessantadue anni, sono quarant’anni che ebbi quel bacio, e me ne ricordo come della sola e vera dolcezza che ebbi nella vita mia: quel sacro bacio mi accese una luce che io ho tenuta e tengo sempre innanzi agli occhi miei, e la terrò sino all’ultimo dei miei giorni. Se il mio canonico ne fu lieto non ve lo dico.
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Camera Errico Stefano
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