C’era stato il terremoto grande del 1832, e tutti ne parlavano con terrore, e mi mostravano le rovine in vari luoghi, e narravano fatti dolorosissimi. “Ah,” mi diceva uno, “se non ci fossero i terremoti ed i briganti, la Calabria sarebbe il primo paese del mondo”.
La città più calabrese delle Calabrie è Cosenza, dove predomina l’antica schiatta bruzia: Catanzaro è la più grossa, con circa ventimila abitanti, nei quali scorgi l’indole e l’ingegno greco, e li odi parlare un dialetto pieno di greche parole. Allora aveva una gran corte civile per tutte e tre le Calabrie, e come capo di provincia un intendente, una corte criminale, un tribunale civile, un comandante le armi, un vescovo, vari uffiziali di finanza, un liceo, un seminario, una scuola primaria, una tipografia, un solo libraio. Questa città come molte altre, non ha vita propria, ma da la gente che vi corre per piati e per faccende, sicché se la sede del governo provinciale fosse trasferita altrove ella resterebbe deserta. I proprietari attendono a coltivare i loro fondi con l’ignoranza e la negligenza antica, a vendere le derrate e i prodotti delle loro mandre: ma industria nessuna, delle arti le sole necessarie, ogni cosa, persino i solfini, viene da Messina e da Napoli. Vi è rimasta una memoria dell’arte di tessere la seta, introdotta nelle Calabrie nel XII secolo da re Ruggiero: pochi artigiani solitari e miseri hanno imparato quest’arte ciascuno dal padre suo, e tessono per chi fornisce loro la seta, e fanno di bei lavori.
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