In nessuna contrada ho veduto più ingegno che in Calabria, lì schizza proprio dalle pietre, ma raramente è congiunto a bontà, spesso è maligna astuzia.
In Catanzaro trovai poche persone colte, parecchi parlatori che parevan saputi; tutti, specialmente i nobili, cortesi e amabili: il popolo lieto, motteggiatore, vago di spassi e di feste, molti legisti e di valenti: in tutti quanti un po’ di rozzezza che non dispiace perché sotto v’è buon cuore. Le donne, tranne pochissime, non sanno leggere, ma con gli occhi dicono tutto. Dai paeselli vicini ne vengono alcune d’una mirabile bellezza di forme, e mia moglie ne lodava specialmente una che era povera fanciulla di Marcellinara, e aveva occhi, volto, persona bellissima e perfetta.
Ci sono quattro confraternite, delle quali fanno parte tutti i cittadini, che gareggiano pazzamente in feste arredi luminarie, spendendo gran danari che andrebbero meglio adoperati in opere civili. Ma che volete? I nostri padri, vivendo muti e disgregati senza libertà politica, non avevano altro legame comune che la religione, però fondarono queste confraternite dove avevano una certa libertà, e voto, e magistrati, ed uguaglianza, e potere di legge più che di uomini, e associazione di mutuo soccorso; e ragionevolmente amavano queste istituzioni onde avevano molti benefizi. E perché l’arte è un bisogno del nostro popolo, quando si celebra la festa del santo della confraternita, l’eloquenza la poesia e la musica sono adoperate nella festa. Un prete o chierico sciorina un panegirico, a cui il popolo batte le mani e grida l’evviva: sonatori vanno per tutta la città, e poi quante persone sanno accozzare versi italiani, latini, e greci ancora, e francesi s’il vous plaît ne recitano a dilungo.
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