Trovandomi inerme in mezzo a tanti che volevano fare a schioppettate col cholera, io mi provai una volta a dire: “Amici miei, smettete quest’idea di veleno, ché nessun governo per tristo che sia ha mai avvelenato i popoli. Ella è peste, è malattia: guardate il cielo come è brutto, e osservate che tutti abbiamo un malessere. C’è qualcosa nell’aria che cagiona questo, e l’aria non si può avvelenare. Quando ci fu la peste in Atene, che era assediata dai Peloponnesi, il popolo, dice Tucidide, credette che i Peloponnesi avevano avvelenato i pozzi. Sempre così, l’è un vecchio errore di popoli. Ricordatevi la peste di Milano descritta dal Manzoni; anche lì credevano veleno sparso su le mura dagli untori, e condannarono a morte alcuni disgraziati. Bisogna tenersi lungi dagli appestati, bisogna guardarsi, va bene, ma non temere per le acque”. Mi risposero inviperiti che io stessi pure con Tucidide e con Manzoni, e essi si stavano con la loro opinione. Erano uomini di senno, e parlavano come matti: avevano le facce trasformate, gli occhi spalancati. “Ho visto io morire un cane dieci minuti dopo che una donna gli ha gittato un pezzo di pane.” “E la donna?” “Era già scomparsa.” “Ecco qui una lettera da Cosenza: ‘Amico carissimo, guardatevi perché i nostri nemici ci vogliono attossicare come topi. Moriamo almeno con le armi in mano’. E chi mi scrive non è uno sciocco.” “Ho parlato con un proprietario il quale co’ suoi guardiani è andato in campagna, ed ha veduto un uomo vestito come un calderaio che beveva ad una fontana: egli ha sospettato, ha detto: ‘fermo là’, e quegli è fuggito come una lepre.
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