Intimarono a tutti di vestirci ed uscire: e chiusero la casa, e portarono via la chiave. Mia moglie con Alessandro che portava il bambino in collo fu condotta in casa di mio fratello Peppino; io accerchiato da birri fui condotto nel quartiere dei gendarmi, dove condussero anche il giovanetto Alessandro. Dopo ventiquattr’ore Alessandro fu liberato, e mia moglie tornò in casa, dove alla sua presenza fu fatta un’altra ricerca minutissima, e non trovarono nulla, e presero alcune carte per prendere qualche cosa. Io rimasi nel quartiere otto dì, guardato a vista da gendarmi che non mi lasciavano mai solo né la notte né il giorno. Tra quei gendarmi era un giovane bello di aspetto e di umore piacevole, il quale mi disse: “Voi siete professore, ed io voglio insegnare a voi una cosa, e ricordatevela: i nemici dell’uomo sono tre, carta, calamaio, e penna”.
All’alba dell’ottavo giorno mi fecero montare a cavallo fra quattro gendarmi, e mi condussero a Tiriolo, paese che è su la grande strada delle Calabrie. Cavalcando passo passo sento di dietro venire correndo un altro cavallo, mi volto e vedo mio fratello Giovanni: i gendarmi gli vietarono avvicinarsi, ed ei porse loro del danaro per me, mi salutò mestamente, e tornossene. Stetti in Tiriolo sino a la mezzanotte: in quell’ora giunse la diligenza, ed io vi montai con un solo sergente a nome Failla, che condusse anche sua moglie. Prima di entrare in diligenza egli mi disse: “Signore, debbo condurvi in Napoli, e son dolente di adempiere questo dovere, ma capite che è dovere.
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