Nella prefettura fui chiuso in una stanza terrena dove era un cesso terribilmente fetido, ed un gran tavolato sul quale gettai il mio valigiotto, sul valigiotto poggiai il capo e mi addormentai come Diomede. Dopo non so quante ore sentii scuotermi forte e scrollare da una mano, e dirmi il carceriere: “Alzatevi, vi vuole il commessario”. Nel balzare in pié mi trovai le mani rosse e fetide di cimici, che allora sentii per tutta la persona. Il commessario mi domandò: “Siete voi il professor Luigi Settembrini?” “Sono io.” Montate in carrozza”. E aggiunse altre parole che io non intesi mezzo stordito come ero dal sonno. Montai con due sbirri che vollero una mancia perché non mi legarono, e fui menato in Santa Maria Apparente prigione dei ladri e dei rei di stato.
XIII - Il carcere di Santa Maria Apparente
Il custode maggiore rispettosamente mi chiese il permesso di ricercarmi i panni indosso, volle che io gli consegnassi il danaro che avevo, ritenne il valigiotto e la chiave, mi prese il cappello, voleva togliermi anche il mantello, ma dopo averci pensato e averlo cercato e scosso ben bene me lo lasciò tenere. Finito questo, un carceriere tolse un mazzo di chiavi, lo sbatte a la porta, entrò gridando: “dentro dentro”, e poi che ebbe chiusi tutti i prigionieri nelle loro stanze, tornò, e pei vuoti corridoi mi menò giù in una di quelle stanze che si dicono criminali, e questo criminale aveva nome secondo trapasso, perché di lì si passava per entrare nei criminali interni. Questo trapasso illuminato da una finestra alta dal suolo era umido e freddo, con le mura ingrommate di muffa; aveva due poggiuoli di pietra, e non altri arnesi che un vaso immondissimo, una lucerna di creta, un piattello, ed una brocca d’acqua.
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