“Ecco servito il signore,” disse il mariuolo con un ghigno; cavò da un pentolone di rame una ramaiolata di fave che versò nella lorda scodella, cavò da un sacco un pane nero e lo gettò sul poggiuolo, e tenendo il ramaiuolo in mano incrociò le braccia e si messe a passeggiare per la stanza zufolando una canzonaccia. Intanto il custode mi disse: “Abbiate la pazienza di consegnarmi gli straccali che avete ai calzoni e le legacce delle calzette”. “Potrei sapere perché?” “È ordine: voi siete in esperimento, e non dovreste avere nemmeno il mantello.” “Ma che potrei fare con gli straccali e le legacce?” “Non so; ma una volta un carcerato si strangolò.” Io sorrisi e gli diedi ciò che volle. E mi feci portare il farto, riempire la brocca d’acqua, e andò via agli altri criminali dentro.
Mi messi a passeggiare per la stanza, e pensare: “Ha detto che sono in esperimento. Chi sa quanti giorni mi faranno stare in questo criminale, dormire sul quel farto, mangiare queste fave, senza altri panni, privo d’ogni cosa, e mi renderò sudicio e brutto come una bestia. Se l’esperimento è questo io lo sopporto: ma se verranno stasera a darmi la tortura per farmi parlare? Se mi legheranno, mi batteranno, mi getteranno acqua addosso?”. A quest’idea fremevo, sudavo, mi venivano innanzi agli occhi le mani di frate Angelo. “Verranno molti, mi metteranno le mani addosso i manigoldi, che fare contro tanti? Ebbene vengano a straziarmi, a lacerarmi il corpo: io non farò motto. Giacché ci sono, bisogna starci da uomo.
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Abbiate Potrei Angelo Verranno
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