E dopo questo passeggiare mi stendevo lungo sul farto; ma sempre il cervello mi andava sossopra, ed il cuore era agitato da una tempesta. Quando pensavo a me sentivo una certa baldanza e la coscienza di saper sofferire, e l’attendevo proprio la tortura per provarmi: ma quando mi si presentava a la mente la faccia della donna mia e del mio figliuolo io son sapevo contenere le lagrime. Non avevo loro nuove, non sapevo della loro sorte: mille dubbi, mille timori mi laceravano tutte le fibre del petto. Oh non possa sentire nessuno quello che sentivo io: sono dolori che anche a rammentarli mi fanno male davvero.
Rimasto senza quel vicino, io tornai a salmeggiare con l’amico, e seppi altri particolari. Dopo alcuni giorni mi comparì innanzi un omaccio con boria villana e due occhi di serpente, il quale squadratomi da capo a piedi, e senza salutarmi, mi domandò: “Come vi trovate in questa stanza?” “Se dicessi bene, non direi il vero.” “Soffrite molto?” “Con la pazienza si soffre meno.” “Che volevate fare con la giovane Italia?” Io che avevo caricato la pipa e avevo in mano la pietra, l’esca e l’acciarino (siamo nel 1839, e non c’erano solfini ancora) battei, e mi messi a fumare, guardandolo freddamente senza far motto. Egli girando gli occhi ora di qua ora di là, diceva: “Saria meglio per voi dire ogni cosa, come hanno fatto i vostri compagni, i quali sono in belle stanze e tra poco usciranno.” “Quali, compagni? io sono venuto da Catanzaro, e non conosco nessuno.” “Oh, voi parlate in latino con essi.
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Soffrite Italia Saria Catanzaro
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