Io l’interruppi a mezzo: “Ma posso sapere finalmente perché sono arrestato?” Allora egli mutando tuono: “Voi siete accusato di appartenere alla setta la giovane Italia.” “Non ne so nulla: è una falsa accusa.” “Conoscete voi il parroco Barbuto?” “Neppure di nome”. E il cancelliere scriveva: “Conoscete il farmacista Raffaele Anastasio?” “No.” “Conoscete Benedetto Musolino?” “Costui sì, perché fummo compagni a studio.” “Avete scritte voi queste lettere?” “Non mi appartengono.” “Eppure sono di vostro carattere.” Forse paiono, ma non sono né io le ho scritte mai”. E il cancelliere scriveva, e io gli guardavo la penna. Rispondevo secco, e pesavo le parole. “Voi siete negativo in tutto; ma il negare non giova quando ci sono molte pruove e questi documenti.” “Io le vorrò vedere queste pruove.” “A suo tempo lo saprete.” “Potrei scrivere una lettera a mia moglie, e farmi comperare coi miei denari un po’ di cibo?” Egli chiamò il custode maggiore, e dettogli non so che all’orecchio, si volse a me. “Potete scrivere la lettera ed avere il cibo: anzi andrete in una stanza migliore, ma ripensate a ciò che vi ho detto.”
Fui condotto in uno dei criminali interni al numero 6, ebbi carta e calamaio, ed in presenza del custode scrissi la lettera, che non fu mandata, ed io poi la vidi nel processo dove la messere per paragonare i caratteri. Mi fu dato del cibo comperato da una taverna, e per mangiarlo ebbi un cucchiaio di legno; potei avere la biancheria, e mutarmi la camicia. La nuova stanza era piccola, coi soliti due poggiuoli, e i soliti arnesi; ma aveva una finestrella cui si montava per una scala di fabbrica, e su cui si poteva sedere con la persona ricurva, sporgeva su la chiesa, e guardava tutto il bel golfo di Napoli.
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