Io ogni cosa negai, feci vedere la sciocchezza di quella favola, dissi che era un infame calunniatore. Le parole furono molte; io gridavo, il commessario mi sgridava, il prete era pallido e tremava. Chiamato il custode venne, e mi ricondusse nella mia segreta e accompagnandomi ripeteva: “Che sacerdote! che servo di Dio!”
Forse qualche moralista si scandalezzerà delle parole che ho scritto, e dirà che io non doveva negare, perché la bugia è sempre disonesta, e la verità s’ha a dire ne vada anche il capo. È vero: la verità s’ha a dire sempre e tutta quanta. Ora se io accusavo me solo, non la dicevo tutta, né quelli se ne contentavano; se la dicevo tutta accusavo gli altri, e li avrei fatti andare in galera, sarei stato un denunziante vigliacco. Io negavo arditamente perché avevo la profonda convinzione di avere operato secondo virtù, e di trovarmi a fronte d’un ladrone che voleva assassinare me ed i miei amici. Quella bugia a me pareva, ed era, cosa moralissima: la verità sarebbe stata scellerata e vile. Io stessi sempre sul niego, e stetti in criminale. Il commessario m’interrogò cinque volte, ed io sempre no, “non conosco nessuno, coteste lettere non sono scritte da me. Ci vuoi tanto a falsificare un carattere?” Egli infine si persuase che con me era tempo perso, e non mi fece più chiamare.
Ero già in quel carcere da trentadue giorni che avevo contati ad uno ad uno, ad ora ad ora, e non sapevo nulla di mia moglie e del mio figliuolo rimasti in Catanzaro. Venne il custode e disse: “Vostra moglie è venuta, e vi attende sopra.
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Dio Catanzaro Vostra
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