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      Il giorno appresso mia moglie mi mandò il pranzo: trovai in fondo a la bottiglia di vetro nero un pezzetto di lapis, e dopo due giorni un rotolino di carta bianca. La bottiglia fu la nostra valigia. Riuscita la prova della carta bianca, mia moglie faceva così: scriveva sopra un pezzetto di carta e ne lasciava bianca la metà, ravvolgeva stretta tutta la carta, la legava, poi l’avvolgeva in una fronda verde, la fermava in fondo della bottiglia, e sopra versava il vino. Io bevevo il vino, spiccavo con la cannuccia della pipa la carta che dentro trovava asciutta, scrivevo sul pezzo bianco, la fermavo nel modo stesso. I custodi non ebbero mai li pensiero di metter l’occhio nel fondo della bottiglia che era sempre delle più nere. Così ci scrivemmo sempre, io sapevo tutto, e in quelle letterine trovavo un conforto grande. Mia moglie ne serba ancora alcune mie: le sue io le distruggevo subito.
      Dopo sessantasei giorni di criminale inferiore, passai in un sottochiave cioè in una stanza superiore, larga, ariosa, con una grande finestra che stava sul primo trapasso, ed affacciava sul giardino, e vedeva molte ville e case lontane. Come io vi entrai e vidi il sole nella stanza, mi messi a quel sole, tutto che fosse sul fine di luglio, e mi riscaldai tutta la persona, ché nel trapasso e nell’Immacolata avevo sempre freddo. Mi parve così bello quel sole, quella luce, e quel verde che sentii un ristoro per tutta la vita; allora non mi accorsi che l’aria di quella stanza era avvelenata dalla latrina del carcere che le stava da presso.


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271

   





Immacolata