In quella stanza stetti sedici mesi ed otto giorni.
Mentre mi riscaldavo al sole, ecco battere alla parete della stanza contigua, e una voce: “Ehi, chi sei tu?” Io batto anch’io, poi mi fo alla finestra, e ascolto: “Santo diavolo, vuoi dirmi chi sei?” E che t’importa chi son io?” “E va a malora.” Dopo cinque minuti, ripicchia al muro, io vo a la finestra, e quei mi dice: “Attacca l’orecchio al muro dove senti picchiare”. Vado al muro ed odo: “Io sono Pasquale Musolino: sei tu Luigi?” Io picchio, metto le mani presso la bocca vicino al muro, e dico: “Sono Luigi; Benedetto dov’è?” “Dal lato di mezzogiorno: si sono fatti cambiamenti di stanze”. Dalla finestra scambiammo altre brevi parole, e stabilimmo dover parlare la sera a traverso la parete che è di tufo, sottile, e però sonora. Poi egli si messe a cantare. Cantava sempre a dilungo, e dopo un’aria della Sonnambula una canzone calabrese, e poi un’altr’aria, e poi un “santo diavolo” con un sospirone: non istava mai cheto, faceva sempre rumore nella sua stanza, rideva, si sdegnava, e quando non cantava fumava, parlava coi ladri che stavano nei criminali inferiori, e gli chiedevano tabacco da fumo, ed ei ne mandava loro per mezzo dei custodi, ed essi lo chiamavano il mastro di casa; e sebbene chiuso in una stanza conosceva tutti, si faceva udire da tutti, e quando vedeva una donna ad una finestra lontana cantava e telegrafava con le mani. Aveva ventun anno: non lo tenevano reo, e lo lasciavano sfogare: e poi egli era largo coi custodi, ai quali suo fratello faceva dare buone mance.
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