Il giorno 11 agosto aspettavo il pranzo all’ora solita, e non veniva: verso il tardi s’apre la porta, ed entra proprio il custode maggiore, che mi dice: “Possiamo vederla badessa”. “Che è mai?” “La signora s’è sgravata, ed ha fatta una femmina. Buona salute a tutti: voi a libertà, e lei badessa. Pranzate dunque allegramente”. Così nel carcere di Santa Maria Apparente il giorno 11 agosto 1839 mi fu annunziato che a mezzo giorno mi era nata la mia figliuola Giulia Eleonora Beatrice. Io la benedissi da lontano, e pensai quanto aveva dovuto patire la mia Gigia senza di me. Dopo alquanti giorni mi portarono la bambina, e mentre io la baciava ella aperse due begli occhi cilestri e mi sorrise. Mia moglie mi diceva: “Dovevamo morire io e lei, ma Iddio non ha voluto: che due giorni prima del parto caddi e rotolai tutta una scala: mi tenni la pancia con le mani, e così non abortii. Guardala ora come è bella, e dorme placidamente”. Povera figlia! ella succhiò il latte di sua madre che sofferì tutti i dolori della miseria, che patì la fame, e come se questo fosse poco, quando andava dal commessario a pregarlo che sbrigasse il processo, colui le diceva: “Signora mia, non pensate più a vostro marito che certamente sarà condannato a vent’anni di ferri almeno: pensate a voi”. Con che cuore la mia donna udiva queste parole, e di che latte avvelenato doveva nutrire la sua creatura! La bambina sfiorì, il suo corpicino si ricoprì di piaghe, ed ebbe lunga e penosa malattia. Quando fu donna e andò a marito, io non potei benedirla che di lontano, perché ero in altro carcere: quando fu madre, neppure potei benedire la sua figliuoletta.
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