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      Io pensai d’inventare una lingua, di scrivere un centinaio di parole strane le quali significassero le cose principali che volevamo dire, e non fossero intese da nessuno. E le scrissi: ma il difficile era dare lo scritto a Pasquale. Questi subito trovò il mezzo. Le nostre finestre non avevano vetri, ma due tele di canape: egli ne tolse alquanti fili, li annodò, vi pose ad un capo un pezzetto di carta scura, e l’abbandonò fuori la finestra; il vento portò la cartolina ai miei cancelli, io l’afferrai; ed ecco stabilita una comunicazione tra noi mediante quel filo che rimase rasente il muro legato ad un ferro, e però non si vedeva: e noi di sera, in certe ore più quiete lo facevamo lavorare destramente. Con quelle cento parole, a cui egli aggiunse altre, e poi ciascuno dei compagni aggiunse le sue, noi formammo una lingua convenzionale che neppure il diavolo poteva intendere, e ci usammo a parlarla con una facilità mirabile.
      Eccone qui un saggio. Prima i nomi nostri: Benedetto fu Timur, Pasquale Acmet, io Omar; e poi gli altri come vennero ebbero ciascuno il suo nome. Il carcere latome, i carcerati latomest, la setta botte (lo stivale italiano), i settari bottis, il re Zarcan. Dal romanzo Quintino Durward di Walter Scott, traemmo alcuni nomi: il ministro fu Tristan, il commessario Trois Echelles, l’ispettore petit André. Il cibo sitos, il filo dontus, il carceriere chius. Io iace, tu seit, egli iul, noi imis, voi izabi, essi scils. Sì ne, no u. I verbi erano invariati, una voce per tutti i tempi, modi e persone: essere mellin, volere telo, scrivere graft, abbandonare labactani, dire fein, rispondere antifein, bisogna string, adagio javasi, mandare ballin, venire erco, fuggire arvoric, vedere idin, sdegnarsi rasc: e tante altre voci che non ricordo più e che erano storpiate dal greco, dal latino, da tutte le lingue di cui ricordavamo qualche parola.


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271

   





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