Così finalmente venuti sotto la giurisdizione di magistrati potemmo ottenere per ordinare fra noi la difesa di stare insieme una mezza giornata nelle stanze del custode maggiore. Ci rivedemmo non senza commozione di animo: ed avendo preparata prima ogni cosa facemmo col nostro chimico Anastasio molti esperimenti su i caratteri simpatici o invisibili, che si scrivevano con prussiato di potassa, e si scoprivano con solfato di ferro. Riusciti bene gli esperimenti, ragionammo del nostro disegno di difesa, prendemmo ciascuno la parte che gli spettava, e dopo una stretta di mano tornammo a le nostre stanze.
Indi a pochi giorni vennero nel carcere per ascoltarci e conferire con noi i due avvocati ufficiosi, che erano Giuseppe Marcarelli presidente della corte criminale per noi, ed il giudice Crispi per Escalonne, due uomini rispettabili e assai stimati, specialmente il Marcarelli, su la cui faccia si leggeva una gran bontà di animo che tutti lodavano e che io dipoi conobbi a pruova. Io feci la mia parte, e dissi che questa non era che una macchina inventata da la polizia, un intrigo tenebroso fatto per fine reo. “E per qual fine?” “Per mettere paura, mostrarsi necessario, facendo apparire sette, congiure, pericoli che essa scopre”. Queste parole non destarono maraviglia nei due magistrati, perché la polizia con le sue continue prepotenze e soperchierie puzzava a tutti, era creduta capace di tutti gl’intrighi, ed essi ogni giorno ne vedevano e ne toccavano con mano gli abusi in tutti i processi: e poi il ministro Del Carretto era fieramente odiato dai più fedeli realisti.
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