E sul Barbuto l’istruttore ebbe da Catanzaro le più fosche informazioni, anche dal vescovo che lo diceva indegno sacerdote e sospeso a divinis; ed altri lo accusarono di brutte infamie che non voglio ripetere, e chiunque fu dimandato di lui lo dipinse come un ribaldo. Egli fin da prima era un tristo, ma soppiatto, e nessuno lo conosceva: quando si fu chiarito denunziante, ognuno gli calcò la mano addosso. Per non tornare più su di lui dirò sin da ora che egli sopraffatto dal pubblico disprezzo e dallo sdegno anche della sua famiglia, ammalò e morì poco dopo che fu fatta la causa.
“Ecco qui,” dirà taluno, “perché tu non li puoi vedere i preti, un prete ti denunziò: l’abbiamo capita.” Taluno me l’ha detto cotesto, ed io ho risposto sempre: “La storia mi fa abborrire i preti: non una piccola offesa fatta a me da un miserabile, che poteva ancora non esser prete, ma diciotto secoli di delitti, di rapine, di sangue, ma i roghi, ed i tormenti, ma un immenso cumolo di mali, di corruzione, d’ignoranza, di ferocia, ma la servitù della mia patria, e di tante contrade della terra, mi fanno ribollire l’anima a pensare al prete, che è stato ed è cagione di tutte le umane miserie. Lasciamo cotesto argomento: chi li ama se li tenga e ne goda”.
Impinguato bene il processo, la commissione suprema decise mettersi in libertà il servo dei Musolino, e Saverio Bianchi; noi altri in causa. Il servo uscì; il povero Bianchi rimase in carcere a disposizione della polizia per altri due anni. Noi altri, cioè i due Musolino, l’Anastasio, io, e l’Escalonne, dopo di essere stati venti mesi nei criminali di Santa Maria Apparente, fummo ammanettati, e dietro una funata di ladri, fummo condotti nella gran prigione della Vicaria in un giorno di gennaio del 1841. Il Ricciardelli rimase in Castel dell’Ovo.
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