In questo luogo, che allora fu sgombrato e preparato a posta per noi, si soleva mettere i nuovi arrestati in esperimento per farli confessare mediante paure e tormenti, ed ancora i forzati che per delitti commessi in galera venivano ad essere giudicati in Napoli. E di questi forzati vi erano tradizioni di sangue in ogni criminale: qui furono uccisi due dai compagni; qui fu pugnalato un altro; dallo Sperone fuggirono dodici che sbucarono la volta coi coltelli e riuscirono in una sala superiore; qui stette un anno Marco Perrone, prete, bandito, e poi impiccato, e v’ha lasciato il suo nome. Noi dunque fummo chiusi in quei criminali, ed a me toccò l’Asprinio. Luce fioca, aria grave, puzzo stomachevole e continuo, una volta bassa che pare ti caschi sul capo: nell’inverno vi si agghiaccia, nella state pare di essere in un forno.
Avemmo da scrivere per le nostre difese: ed io in quell’antro freddissimo passava i giorni a scrivere memorie per l’avvocato e pei giudici. In alcuni giorni della settimana dopo il mezzodì passavo al carcere dei nobili nella stanza dell’ispettore, e quivi vedevo mia moglie, e il mio Raffaele, e talvolta ancora quella cara bambina tanto ammalata e pure tanto bella. La stanza dell’ispettore era aperta, fuori erano i custodi, dentro noi soli, e potevamo parlare senza testimoni. Lì mia moglie mi raccontava quei dolori, che non mi aveva scritto mai, e che io non posso neppure ricordare perché mi trema il cuore anche a ricordarli dopo tanti anni. Ella mi diceva: “L’unica persona che mi accoglie coi riguardi dovuti a la sventura è il presidente Marcarelli: egli solo mi dice parole di conforto, ed è un galantuomo.
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