E senza permesso volli liberarmi ancora dalla tenia, a consiglio dell’Anastasio, e bevvi un decotto di radice di granato selvaggio che mi fu preparato e portato da mia moglie. Così mi preparava a la battaglia della causa che si avvicinava, e ci volevano buone forze a sostenerla, ed io era spossato e sofferente.
Il 22 giugno 1841, fummo condotti in Castelnuovo. Innanzi la chiesa di Santa Barbara ci venne incontro don Camillo, un vecchietto custode della prigione di stato, il quale ci menò ad una porta, e prima di aprirla accese due lanterne, una per sé, una pel capo de’ gendarmi, e si cacciò giù innanzi a tutti: noi dietro scendemmo al buio, a tentoni, una scala sempre diritta, lunga centosette scalini, e finalmente giungemmo in un camerone grandissimo, dove era un po’ di luce da una finestra assai alta dal suolo e profondata nelle mura del castello. Poi che ci tolsero le manette, io dissi al custode: “E questa è tutta la prigione di stato che voi custodite?” Il vecchio si sentì pungere. “E che volevate un appartamento?” mi rispose. “Qui ci sono stati signori grandi; e qui in questa cantina sono state chiuse in una volta più di cento persone. Questo è il celebre Coccodrillo.” “Oh perché si chiama così?” “Dicono che il coccodrillo impagliato che sta sulla porta del mastio del Castello prima stava qui, e divorava i prigionieri: dicono, vedete, io non lo so io, che non fu a tempi miei.” “Ma come li divorava se erano chiusi qui?” “Osservate qui sul pavimento questo gran quadro di fabbrica più recente: qui c’era una botola, e sotto c’è il mare: e quando i prigionieri erano gittati giù per quella botola il coccodrillo se li mangiava”. Noi ci dovemmo acchetare alle notizie storiche di don Camillo, il quale stava lì da trent’anni, e suo padre ce n’era stato cinquanta: e non gli si poteva contraddire senza offenderlo.
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