E l’ispettore che teneva sempre sgangherata la bocca al riso anche quando dava le busse ai carcerati, ci rispose senza fare atto di ridere: “Contentatevi, signori, contentatevi. Sappiate che c’era ordine, se foste stati condannati, di farvi partire oggi stesso pel bagno: come c’è ordine che oggi stesso don Pasqualino esca libero, e che voi quattro passiate al civile nel carcere dei nobili, stanza numero cinque, a disposizione di S. E. il ministro di polizia”. Così fu fatto: Pasquale uscì, noi entrammo fra gli altri carcerati nella stanza al numero cinque, e ridotti alla condizione comune non ci fu più permesso di vedere i nostri parenti nella stanza dell’ispettore, ma all’udienza che era un pandemonio, e mia moglie non ci venne mai.
Fu una pazzia quella di sfidare la polizia, ma senza quella pazzia noi saremmo andati in galera. Il ministro Delcarretto teneva certa la nostra condanna, perché i processi politici erano fatti tutti come il nostro, e spesso ci metteva le mani egli stesso, e tutti i processati erano condannati, e nessuno aveva avuto l’ardire che avemmo noi: ché l’ardire e l’ingegno ci salvò come salva quasi in tutti i pericoli. Come dunque seppe che noi fummo assoluti entrò in grande furore e disse proprio queste parole: “Non mi resta che invitarli a pranzo quei signori”. E in quel furore corse dal Re, ed esposta la cosa a modo suo propose di rifarsi la causa da altri giudici e intanto di mandar noi provvisoriamente nel bagno di Nisita. Il Re ordinò si portasse a lui il processo.
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